il fratello più forte

 

 

L'oro delle Highland

 

Chiedere ad un appassionato di Whisky qual è il migliore di Scozia significa iniziare una discussione davvero senza fine, anche se molto spesso s’indicano gli isolani come i più rappresentativi e tipici di uno stile inconfondibile e “per pochi”.

In questo, devo dire, mi sono sempre distinto arrivando fino a sollevare le ire dei puristi di Islay: pur essendo un fan sfegatato delle isole Ebridi ritengo che in termini di sapori e profumi gli Highland siano imbattibili.

Per rendersene conto basterebbe confrontare un vecchio Ardbeg 10 con un grande Highland 10 anni della stessa epoca: al primo impatto il primo sarebbe più appagante, ma alla fine la spunterebbe il “cugino” della terraferma. Molto spesso, inoltre, un isolano può addirittura non piacere per nulla, mentre difficilmente un figlio delle terre alte non è gradevole (…non vi dico cosa sto sorseggiando in questo momento!).

Nel caso in cui mi capiti di assaggiare qualcosa di particolare e poco conosciuto e scoprire che si tratta d’autentico oro colato, allora la mia fede negli Highland si rafforza ancora di più; un ottimo esempio è il malto che voglio illustrarvi oggi, a mio parere uno dei prodotti meglio riusciti degli ultimi venti anni.

Molti di voi avranno sentito parlare della più piccola distilleria di Scozia, Edradour, e di come uno staff di soli tre uomini sia in grado di seguire tutto quello che serve per produrre il Whisky.

Per chi non ha avuto l’occasione di visitare la distilleria, ricorderò che si tratta di una struttura veramente gradevole da osservare, un’autentica fattoria con annessa la still room che ancora oggi conserva il suo fascino old style; in più il luogo in cui si trova è incantevole, immerso in una natura rigogliosa nel cuore del Perthshire.

Gli originari fondatori della distilleria, un gruppo di contadini locali, costruirono quello che ancora oggi sarebbe stato in gran parte visibile. La fortuna della distilleria è stata quella di non ricevere molte attenzioni da parte del suo successivo proprietario, tale William Whiteley, il quale acquistò gli impianti nel 1922. Nonostante fosse un nome noto nell’industria del blending, non fece tutti quei cambiamenti che solitamente i blenders attuavano per aumentare a dismisura la produttività, forse perché affascinato dalla tranquilla bellezza dell’insieme o, più probabilmente, perché sapeva che l’anima di quel prodotto scaturiva proprio dal modo semplice e puro con cui nasceva.

La corrente elettrica, per esempio, fu installata solo nel 1947 e per molti anni tutto è rimasto come all’epoca della fondazione (1825), ma in tempi più recenti i nuovi proprietari qualche modifica l’ hanno apportata…

Non è molto bello vedere interi autobus pieni di turisti che aspettano di visitare la distilleria, e magari nell’attesa del proprio turno si abbuffano nel visitor centre costruito nientemeno che nei vecchi maltatoi; del resto, come vi spiegherà una sedicente guida in kilt, l’orzo maltato industrialmente è molto meglio di quello ottenuto artigianalmente sui pavimenti di pietra! 

Vi faranno notare con orgoglio in che anno fu introdotta l’elettricità, ma non pubblicizzeranno molto il fatto che la filtrazione a freddo è ormai praticata senza ritegno (e, secondo me, è aggiunto anche del caramello), per non parlare della diluizione a 40 gradi.

“Dettagli” che spesso passano inosservati, ma per i puristi queste pratiche equivalgono a condannare la qualità del prodotto finito ad uno standard sicuramente basso, nonché a far perdere quei requisiti di tipicità che tanto hanno contribuito a rendere famosi nel mondo i malti di Scozia.

Ricordo che sia io che il mio compagno di viaggio tempestammo di domande tecniche la malcapitata guida, senza peraltro ricevere quasi mai risposte esaudenti, per poi pugnalarla letteralmente al cuore sentenziando che il dram gentilmente omaggiato non ci era piaciuto affatto!  

Non vorrei sembrarvi sadico, ma vi assicuro che c’è un abisso fra quello che assaggiai e ciò che sto per descrivervi.

Per moltissimi anni Edradour rimase un filling malt proprio perché era giudicato perfetto per il blending; non a caso era uno dei malti base di un famosissimo blend del passato, il Kings Ransome, considerato negli anni venti il migliore blended del mondo.

La sua prima apparizione come pure malt la fece all’inizio degli anni ottanta in un vatted oggi davvero impossibile da trovare: il Glenforres. Il nome derivava dal fatto che, per un po’ di tempo, Edradour era conosciuta proprio così e per questo si usa sostenere che il Glenforres sia il “vecchio” Edradour, ma a mio avviso non è del tutto esatto poiché non si trattava di un single ma di una miscela di malti dove, in ogni modo, il Nostro era presente in gran percentuale.

Ne esistevano due versioni, una in tubo marrone chiaro e una in scatola più scura, quest’ultima probabilmente antecedente alla prima; l’aspetto delle bottiglie era in pratica identico nelle due edizioni, con l’etichetta color argilla scura ed il simbolo circolare della distilleria in bell’evidenza (Glenforres-Glenlivet Distillery). Sul collarino l’indicazione dell’età dei malti (12 anni) e sotto il nome, ben evidenziata, la dicitura “all Highland malt…” a significare che non si trattava di un single.

Curiosamente la gradazione non era espressa in gradi G.L. ma in anidri, e precisamente 32,4 corrispondenti ai classici 43 gradi, l’importatore era la Strega di Benevento.

All’interno troviamo un gran bel whisky: rotondo, ricco e senza picchi di sapori, con ben in evidenza una nota di noce immersa in un deciso sentore di miele (erica?) e menta; sul finale, un soffio di fumo di torba come ben si addice ad un Highland dei tempi andati. Difficile dire quali altri malti erano utilizzati nella miscela, ma ciò che conta era il risultato ed il Glenforres è piacevolissimo da bere in qualunque momento della giornata.

Il debutto ufficiale dell’Edradour avvenne qualche tempo dopo, verso la metà degli anni ottanta. Il prodotto era presentato in un elegante tubo beige con raffigurata la distilleria in un bellissimo quanto semplice disegno colorato, con evidenziata la dicitura “Single Highland Malt”; il medesimo disegno era riportato anche sull’etichetta che copriva gran parte della bottiglia, in vetro bianco, con riportata sul retro una breve storia della distilleria. L’importatore era il signor Franco Fiorina di Alba, gradazione a 43 e tappo in sughero.

Già al primo impatto visivo i sensi si risvegliano alla vista di quel liquido col tipico colore del malto in sherry; in effetti, leggendo le notizie riportate nella pergamena inclusa, si apprende che l’invecchiamento avveniva in fusti d’Oloroso per 10 anni, il che donava al distillato delle superbe venature rosse scarlatte.

Ma la vera sorpresa fu scoprirne il sapore: subito emergeva la nota caratteristica di noci mature, talmente intensa da non essere coperta dallo sherry, cosa che c’impressionò non poco; in rapida successione si aprirono gli aromi di marasca, ribes e fragole, prima che emergesse il tipico abbocco vinoso dello sherry. Umanizzando il bicchiere, lentamente facevano la loro comparsa i profumi più disparati: crosta di dolce, marmellata di ribes, menta, formaggio stagionato, un accenno di spezie (pepe), un leggero sentore di torba e un fumo intenso ad amalgamare l’insieme. Vuotammo rapidamente il bicchiere, entusiasmati da tanta abbondanza, e scoprimmo anche un finale abbastanza persistente in cui tornavano prepotentemente le noci; inutile dire che seguì immediatamente un altro copioso dram, questa volta gustato per il puro piacere di bere un grande Whisky.

Passata l’euforia del momento si tornò con i piedi per terra, rendendoci conto che la bottiglia era quasi a metà (!) il che significava che finita quella l’Edradour sarebbe rimasto solo un suadente ricordo.

Inaspettatamente, la fortuna venne incontro agli audaci che avevano aperto una bottiglia senza averne almeno un’altra di scorta: pochi giorni dopo vidi in un bar l’inconfondibile tubo beige in mezzo ad altre vecchie bottiglie di blended assortiti. Cercando di nascondere l’euforia, sfoderai la storia che uso sempre in questi casi, ovvero il compleanno del papà (che a quest’ora dovrebbe avere duecento anni!), e chiesi la bottiglia; la proprietaria, nel dirmi che era “roba vecchia” mi fece pure un piccolo sconto e tanti auguri per il papà.

Nel giro di un mese, senza mostrarmi mai troppo interessato, presi tutte quelle che aveva e vi garantisco che non passerà molto tempo prima di aprirne un’altra.

Quando all’inizio sostenevo che un Highland ben fatto regge e supera anche un isolano, pensavo proprio a questo prodotto. La cosa forse più sorprendente è pensare che un simile nettare fu prodotto in un’epoca tutto sommato recente, visto che parliamo di un arco di tempo che va dalla seconda metà alla fine degli anni ottanta; in tempi ancor più recenti, direi fra il 1991-2 e il 1994-5 arrivò sul mercato un’altra versione di Edradour, del tutto simile come confezione e bottiglia ma di colore decisamente più chiaro e a 40 gradi.

Al palato era notevolmente diverso, con molto meno sherry e senza quel sapore di noce così marcato, e la menta passò in primo piano diventandone la nota caratteristica; nel complesso forse meno sorprendente del primo, ma sicuramente ancora un malto ben fatto.

Purtroppo di quest’edizione non ho più tracce, ma nonostante l’impressione che ebbi sicuramente favorevole non posso fare a meno di affermare che anche nella più piccola distilleria di Scozia le cose stavano già cambiando.

Un diverso uso della botte di sherry, la diluizione più marcata e, forse, l’abbandono della maltazione in situ sono tutti segnali che indicano chiaramente quale strada la distilleria intenda percorrere: sembra che produrre un malto artigianale oggi sia assolutamente antieconomico.

Arriviamo difatti all’ultima versione, che francamente non ho ancora visto in Italia, e che in pratica vive sugli allori

di un passato recentissimo ma così lontano nelle intenzioni dei suoi produttori.

Molto diversa anche nell’estetica, a mio parere si tratta né più né meno che del solito Whisky commerciale da supermercato, del tutto differente dai suoi predecessori ed in cui la modernizzazione del processo produttivo è entrata pesantemente, dalla maltazione all’imbottigliamento. Le sensazioni che prima l’Edradour regalava sono ora solo un ricordo lontano, ed ad un palato allenato non sfugge pure un tocco di caramello credo più per colorare che per dare sapore.

Mi dispiace dovervi annoiare con il solito finale malinconico su come si lavorava in Scozia nei bei tempi andati, ma in questo caso l’esempio calza a pennello.

    Quello che più stupisce è pensare che, a detta di chi lo distilla, questo whisky oggi sia probabilmente uno dei

     migliori  esistenti perché è prodotto in maniera artigianale (?). Sono convinto che chi afferma ciò non abbia idea

    di cosa fosse l’Edradour in passato, o forse non ha mai avuto la fortuna di berlo.

Sarebbe interessante provare un’espressione di un imbottigliatore privato, magari a gradazione naturale e senza

 “lavoretti” al colore o di filtrazione, ma purtroppo non ho mai avuto l’occasione di trovarne.

La Society lo imbottigliò credo una decina d’anni fa, e rapidamente diventò merce di scambio per collezionisti. Non so

se il nostro grande Samaroli fece altrettanto, ma di sicuro se ciò è avvenuto il livello della selezione doveva essere

altissimo, come per ogni suo prodotto del resto.

Giunto alla fine di queste righe mi accorgo che anche il malto nel mio bicchiere è terminato, ma mi consolo pensando di averne ancora qualche bottiglia. Ovviamente sto parlando proprio del vecchio Edradour, un superbo esempio di quello che noi puristi chiamiamo Whisky. Magari un giorno tornerò a visitare la distilleria e me ne porterò dietro una bottiglia da assaggiare con i tre che mandano avanti il lavoro, chissà che non gli venga l’ispirazione di mettersi a rifarlo come si deve…

 

Saluti a tutti,

Alessandro